Storie quotidiane di Albiatesi nella Grande Storia del Novecento – estratto
Sessant’anni fa, Il 26 maggio 1957, come in un sacrario, venivano poste nel Santuario di San Fermo, nella cappella di destra, due grandi cornici marmoree che ricordavano i nomi dei caduti e dei dispersi albiatesi durante il secondo conflitto mondiale (vd. immagine riprodotta in G. SALA, Albiate, dal Dopoguerra all’inizio del nuovo millennio, p. 333).
La collocazione delle due epigrafi avveniva all’interno del medesimo luogo in cui si venerava la bella tela ad olio dell’Ecce homo, la cui storia di “reduce dall’Albania” è stata con acribia ricostruita da Giancarlo Perego, in un articolo pubblicato su “il Cittadino” del 25 aprile 1992 e riproposto sul volume unico Sagra di San Fermo 2015.
Fra i 14 dispersi (12 in Russia, 1 in Grecia e 1 in Libia) e i 17 caduti menzionati nelle cornici suddette, attirano fra gli altri l’attenzione i nomi di Colombo Anacleto e di Frattini Amedeo, deceduti rispettivamente nel 1944 e nel 1945, a Mathausen (sic), in un campo di concentramento tristemente famoso, in cui trovarono la morte quasi 130.000 persone (5750 italiani).
Aperto nel 1938, il campo di Mauthausen-Gusen era classificato di “classe 3” (come campo di punizione e di annientamento attraverso il lavoro) ed in tale località lo sterminio venne attuato attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito (accessibile solo attraverso i 186 gradini della scala della morte), mediante la consunzione per denutrizione e stenti e, da ultimo, per mezzo di alcune camere a gas (ordinariamente utilizzate per le esecuzioni di “indesiderabili”, per i deportati inabili appena arrivati o per eccedenze fisicamente ridotte alla fine, selezionate per far posto a manodopera nuova).
Ma perché gli Albiatesi Anacleto e Amedeo finirono in quel campo?
Ci lasciamo guidare in questa ricerca innanzitutto dal racconto di altre lapidi e sculture, in cui è stata raccontata la vicenda di centinaia di deportati, che risiedevano o lavoravano in quegli anni di guerra a Sesto san Giovanni e nei paesi limitrofi.
Questi “elenchi della memoria” sono ormai da alcuni anni consultabili in rete e costituiscono preziosa testimonianza di “eroi anonimi che hanno creato la storia” (J. Fucik).
- http://lombardia.anpi.it/media/blogs/lombardia/2010-12/7_ELENCO_COMPLETO_NOMINATIVI-20_12_10.pdf
- https://it.wikisource.org/wiki/Le_lapidi_di_Sesto_San_Giovanni
- http://www.anpimonzabrianza.it/deportati.html
Anacleto
Colombo Anacleto Giuseppe era nato a Albiate l’8 febbraio del 1900 e risiedeva in paese, in Via Roma, 11. Lavorava come manovale alla Falck Vittoria e quotidianamente si trasferiva per lo svolgimento della sua mansione in fabbrica nella città di Sesto.
La notte del 28 marzo 1944 venne arrestato in casa e rinchiuso nella caserma di Carate Brianza: da lì fu trasferito nel carcere di San Vittore a Milano e dal 31 marzo fu relegato nel braccio tedesco, uno dei “raggi” dell’Istituto penitenziario, che, durante il periodo bellico (1943 – 1945), fu soggetto alla giurisdizione delle SS.
Un tribunale germanico giudicava allora i cittadini italiani secondo i regolamenti tedeschi: i detenuti, appena conosciuta la loro sentenza, anche se innocenti, venivano inviati per il servizio del lavoro in Germania se ritenuti idonei, ai campi di concentramento se gravemente compromessi nelle condizioni di salute.
Un nuovo trasferimento condusse così Anacleto alla caserma Umberto Primo di Bergamo, da cui partì il 05 aprile 1944 alla volta di Mauthausen, ove giunse il giorno 8 dello stesso mese.
Anche a lui, come a tutti i prigionieri, fu assegnato un Häftlingsnummer, un numero di matricola, che sostituiva il nominativo degli internati ed era riportato sulla divisa, scritto in nero su stoffa bianca, posto all’altezza del cuore e al centro della coscia destra (talvolta riprodotto anche su una placchetta di latta da portare al collo o al polso).
Anacleto perse il suo nome e divenne così la matricola n. 61615.
L’Albiatese venne, infine, internato a Gusen, sottocampo a cinque chilometri di distanza da Mauthausen, dove morì il 13 ottobre 1944, dopo 6 mesi di permanenza in questi luoghi dell’Alta Austria a 25 chilometri da Linz, dove i prigionieri erano costretti a lavorare anche per 24 ore consecutive, fino al totale sfinimento, poiché detenuti (per la maggior parte maschi adulti, antinazisti) considerati soggetti irrecuperabili, impossibili da rieducare, solo da distruggere psicologicamente e fisicamente.
Amedeo
Frattini Amedeo era nato a Varese il 20 marzo 1901 ed era residente in Albiate, in Via Marconi 28. Lavorava alla Falck Unione reparto OMEC (Officine Meccaniche), come aggiustatore meccanico.
Anch’egli venne arrestato in casa, di notte, nella stessa retata del 28 marzo 1944.
Le caserme di Carate e Bergamo furono anche per lui le tappe intermedie, prima della partenza per Mauthausen, laddove sarebbe diventato la matricola n. 61640.
Amedeo morì il 24 aprile 1945 insieme ad altri 128 internati (24 dei quali Italiani) giustiziati nella camera a gas di Mauthausen e bruciati negli annessi forni crematori.
Le camere a gas erano presenti a Mauthausen, nel Castello di Hartheim e nelle baracche di Gusen; i tre forni crematori nel campo avevano la caratteristica particolare di un’apertura/bocca molto piccola, dimensionata per l’introduzione di scheletrici corpi delle vittime, ridotte a poche decine di chili di peso.
L’ingegneria nazista li aveva progettati con l’intento di economizzare al massimo anche le spese dello sterminio, per essere usati alla fine del ciclo di distruzione del prigioniero ridotto a una sottile sagoma, garantendo un elevato risparmio sul tempo di cremazione e sulle spese di costruzione, di gestione e di combustibile di questa assurda macchina di morte.
Amedeo fu ucciso il 24 aprile 1945, il lager di Mauthausen, ultimo fra i campi nazisti, fu raggiunto sabato 5 maggio 1945 dalle avanguardie della 3ª Armata americana, guidata dal generale Patton, che, entrando nel campo, trovò cataste di morti e 16.000 deportati ancora vivi (dei quali circa 3.000 morirono di stenti subito dopo la liberazione).
Nel mese di aprile del 1945 le SS avevano cominciato la distruzione dei documenti e lo sterminio totale dei prigionieri. Secondo ordini precisi del Reichsminister Himmler e dell’Obergruppenführer SS Kaltenbrunner al comandante del campo Ziereis, Mauthausen e Gusen dovevano scomparire, prigionieri inclusi.
L’ordine dovette valere anche per Frattini Amedeo, che per pochi giorni non riuscì a riassaporare la libertà persa un anno prima.
Ma quale colpa pagarono i due Albiatesi?
Con efficace descrizione e minuziosa precisione, una ricerca guidata da Giuseppe Valota (consultabile anche in internet http://www.deportati.it/static/pdf/TR/1997/aprile/10.pdf) ci racconta che la loro morte fu il “prezzo degli scioperi” che i lavoratori della Breda, della Pirelli, della Falck e di altre industrie sestesi attuarono fra l’1 e l’8 marzo 1944, andando incontro alla durissima repressione tedesca.
Lo sciopero generale vissuto nel Nord Italia dall’1 all’8 marzo 1944 costituì l’atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre di quell’anno.
Lo sciopero del marzo 1944 non fu solo di tipo economico-rivendicativo o per il miglioramento delle condizioni salariali (attraverso la richiesta di aumenti) o della situazione alimentare, ma ebbe connotazioni politiche, intendendo mettere in discussione l’assetto politico-istituzionale del Paese.
A Milano gli scioperanti furono 119.000 nell’arco di cinque giorni, a Torino 32.600 per tre giorni.
Con intento di rappresaglia e di punizione esemplare, Hitler ordinò di deportare in Germania il 20% degli scioperanti.
L’ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone.
Da Sesto San Giovanni e paesi limitrofi duecento lavoratori – in prevalenza operai ma anche ingegneri e impiegati, capisquadra e capitecnici – furono in quei giorni deportati in Germania, quasi sempre senza interrogatorio e senza un’accusa.
Molti i giovanissimi, molti di più i lavoratori fra i 30 e i 40 anni, un gruppo di uomini anche oltre i 50 anni: essi non vennero arrestati in fabbrica ma nelle proprie case, di notte, lontano da possibili sedizioni e rivolte di massa.
In quei mesi convulsi, della Falck Victoria, dove lavorava Anacleto, furono 14 i deportati e ne sopravvissero solo due; della Falck Union, sede di lavoro di Amedeo, furono arrestati 41 lavoratori, 25 dei quali morirono nei campi di concentramento.
Furono 51 gli arresti di quella retata del 28 marzo 1944, che coinvolse gli Albiatesi.
La partenza da Bergamo del 05 aprile, con il Transport n. 35 (si veda anche I. TIBALDI, Compagni di viaggio, Franco Angeli, Milano 1994), avvenne forse su un carro-bestiame piombato: almeno 75 i deportati complessivi.
Con quel vagone vennero trasportate anche otto donne che furono immatricolate successivamente a Auschwitz.
Un destino comune attendeva tutti loro: essere cancellati “da una storia” che non condividevano e contro la quale si erano rivoltati.
Annullati nel momento dell’ingresso al campo con un numero di matricola, la memoria e il nome di Anacleto (nell’Albo di gloria del Santuario di san Fermo a Albiate, nelle memorie dell’Istituto di Storia della resistenza e del movimento operaio, in una lapide Falck all’ingresso dello Stabilimento Vittoria, sul lato destro della lastra in metallo del Monumento eretto presso il Cimitero nuovo di Sesto, in Piazza Hiroshima e Nagasaki, http://lombardia.anpi.it/media/blogs/lombardia/2010-12/5_LAPIDI_CIMITERI-20_12_10.pdf) e di Amedeo (nella cornice marmorea albiatese, nella scultura all’ingresso di via Mazzini della Falck Stabilimento Unione, nella lapide Falck stabilimento Unione reparto Officine meccaniche, sul monumento predetto al Cimitero Nuovo di Sesto), insieme a quello degli altri deportati, continuano a sopravvivere a imperitura memoria di “eroi anonimi che hanno fatto la Storia” anche per il Nostro Paese.
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