Da PETRACIUS a GUIDOTUS, GUILLELMUS, AMBROGIUS… (casi esemplari fra appartenenze religiose, incarichi civili e commercio della lana)
Il frate umiliato Petraçius aveva rappresentato nel XIII° secolo una delle prime esperienze di trasferimento di nostri concittadini verso la città di Milano, non certamente l’unica.
Anche altri personaggi albiatesi si inurbarono sul finire del ‘200, dapprima arrivando ad assumere importanti funzioni amministrative e civili all’interno delle affermatesi istituzioni comunali, successivamente rivestendo uffici ed incarichi politici a nome delle signorie viscontee e sforzesche.
Un nostro concittadino, tal Guidotus de Albiate, venne chiamato nel 1284 (si veda l’atto del 24 maggio di quell’anno, conservato in ASMi, Perg., Monastero Vetteri, cart. 528) a partecipare al consiglio dei “Sei della Camera” del Comune di Milano (sex presidentes rationibus et defensionibus comunis Mediolani) ed in quella veste fu più volte interpellato per la risoluzione di controversie finanziarie sorte fra la municipalità milanese ed i suoi debitori e creditori.
Si trattava senza dubbio di un ufficio particolarmente rilevante, dal momento che questi sei funzionari (nominati uno per ciascuna delle porte attraverso le quali si accedeva alla città), affiancati nel loro operato da due notai, avevano il compito di registrare le entrate del Comune su sei appositi registri, badando sia a non procedere – se non dopo averne fatto annotazione nei propri libri contabili – ad alcuna liquidazione di somme di denaro a creditori, sia ad impedire che cittadini milanesi facessero prestiti a persone e Comuni posti fuori della giurisdizione di Milano (ed alimentassero così la potenza di città nemiche).
Curatore degli interessi finanziari del capoluogo lombardo dovette allora essere l’albiatese Guidotus in quei sei mesi (tale era la durata del mandato) in cui detenne la carica, ma non solo…
I “Sei della Camera”, infatti, erano tenuti a custodire gli Statuti e gli ordinamenti della città, ad adoperarsi perchè il podestà, i consoli e gli altri officiali li osservassero, ad essere, pertanto – per quanto fosse nelle loro possibilità – sentinelle di libertà per il popolo in un’epoca in cui le rivalità fra gli esponenti delle famiglie dei Della Torre e dei Visconti continuamente laceravano il tessuto sociale della vita cittadina.
Accanto a Guidotus meritevole di citazione appare in questa sintetica ricognizione degli Atti del Comune di Milano (M.F. BARONI, R. PERELLI CIPPO, Gli Atti del Comune di Milano nel secolo XIII) anche Guillelmus de Albiate, forse figlio di tal Gallinus, che in Milano rivestì cariche giuridiche a partire dal 1263, ora come notaio addetto alle sentenze della Camera di porta Vercellina e di porta Ticinese, ora con la denominazione di notaio e scriba della camera di palazzo del comune di Milano (nei documenti degli anni 1266-1267), ora in qualità di consul pro iudice Mediolani (5 aprile 1272).
Ma le fortune degli Albiatesi nell’amministrazione del capoluogo lombardo dovettero continuare anche nei secoli successivi con l’avvento delle signorie viscontea e sforzesca.
Se prestiamo fede ai dati fornitici da C. SANTORO, Gli offici del comune di Milano e del dominio visconteo e sforzesco (1216-1515), Ambrogio da Albiate agli inizi del XV°secolo e fino al 1405 (quando, alla sua morte, venne sostituito da Apollonio de Polla) fu uno dei notai dei malefizi collaborante con i due giudici addetti alle cause criminali. Quest’incarico, in precedenza assegnato dal Podestà della città, al principio del ‘400 era messo all’asta e dato quindi al miglior offerente.
Sufficientemente ricco (o comunque abbastanza importante nel contesto sociale) da permettersi questa carica fu probabilmente Ambrogio che venne scelto anche perché, come richiesto dagli Statuti cittadini, “straniero” alle lotte fra le fazioni cittadini o comunque gradito al Signore regnante.
Tra i suoi compiti a Milano: la redazione, la sottoscrizione e la registrazione degli atti inerenti ai reati commessi dai criminali dell’epoca, la notificazione ai rei delle accuse presentate contro di essi, affinché provvedessero alla propria difesa nel termine di tempo concesso dalla legge, l’inoltro dei mandati di sequestro di merci nei confronti di debitori insolventi.
Appartenente ad una famiglia di cospicua stirpe dovette essere anche il nobile uomo Simone da Albiate, che, nominato podestà di Crema nel luglio 1439, dopo un periodo di vicariato di sei mesi del dottor Lombardo de Millio, assunse la suddetta carica nel 1440, conservandola fino al 1444 (quando fu sostituito da Nicolò de Giorgi). Forestiero, scelto verisimilmente – secondo consuetudine – fra le famiglie più ricche e più nobili delle città alleate o amiche della Signoria che regnava su quei territori, Simone si dedicò all’amministrazione della giustizia sia civile che penale (con potere anche di condannare a morte) nella città di Crema ed in parecchie pievi circonvicine, mantenne a sue spese la corte, svolse funzioni di rappresentanza del Signore in un’epoca in cui la figura podestarile aveva ormai perso molti dei suoi poteri reali ed era assurta a mera “carica di prestigio”.
Ma famiglie provenienti da Albiate si trasferirono in Milano anche per impegnarsi in una delle attività maggiormente diffuse nel capoluogo e nel contado in quegli anni: la lavorazione della lana.
Con il perfezionamento della tecnica della lavorazione dei panni e con la diffusione di quest’arte, fra XIII° e XIV° secolo si venne progressivamente affermando una classe intermedia tra i grandi importatori di lana e gli artigiani: erano i mercanti-imprenditori che acquisivano dal grossista la materia prima, l’affidavano per la lavorazione ad operai specializzati e poi si impegnavano a portare sul pubblico mercato il prodotto finito, definendo opportunamente i prezzi.
A questa categoria, che già dal 1330 (ma forse anche prima) in Milano si era distaccata dalla “società dei grandi mercanti” ed aveva assunto una normativa statutaria autonoma per la propria attività, si affiancarono con la fine del secolo alcuni gruppi di lavoratori che erano riusciti a costituire delle corporazioni a sé stanti.
Un esempio di queste prime forme di cooperazione, nate dalla volontà di tutelare i propri interessi e di svincolarsi dai rigidi legami imposti dai grandi imprenditori, fu la “Società dei mercanti di lana sottile”, cui si iscrissero il 16 dicembre 1406 anche i fratelli Andriolus, Girardus, Aluysius e Donatus di Albiate.
Figli del defunto Zillio, residenti nella parrocchia di San Bartolomeo entro la cerchia cittadina, abbastanza ricchi da versare un deposito per l’iscrizione alla Società, i fratelli albiatesi in quella data diedero garanzia di esercitare fedelmente l’arte della lana e si impegnarono a rispettare gli statuti dei mercanti. Con il consenso dei vertici associativi registravano quindi in uno dei sette registri della matricola cittadina il proprio nome ed il marchio – mai da mutarsi nella figura e nella forma – che avrebbero apposto alle stoffe da vendersi sui mercati del capoluogo ed extracittadini (cfr. C. SANTORO, La matricola dei mercanti di lana sottile di Milano, p.45).
Uomini di fede, amministratori capaci della cosa pubblica, esperti lavoratori erano dunque gli Albiatesi del mondo medievale inseriti nella vita cittadina milanese.
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